Oggi celebriamo la giornata della memoria: ricordiamo, cioè, quello che gli ebrei (e con loro gli zingari, gli omosessuali ed altri) hanno sofferto a causa del fascismo e del nazismo. Lo faremo assistendo alla proiezione de Il pianista di Polansky; sabato poi avremo modo di ascoltare la testimonianza di un ex deportato in un campo di concentramento. So che parteciperete con serietà e voglia di capire – e mi piacerebbe trovare qui le vostre impressioni. Ma questo post è per un altro motivo. E’ per confessare un disagio mio di fronte a questa iniziativa. Un disagio che ho avvertito molto forte lo scorso anno, quando mi preparai una lezione sulla riflessione teologica su Auscwhitz (non perché voglia sostituirmi alla collega di religione, ma perché ho studiato in modo abbastanza approfondito il problema) e, dopo aver citato Jizchaq Luria (un filosofo ebreo del Cinquecento), mi sentii chiedere da un’alunna: “Chi è, don Lurio?”. Quella domanda troncò la mia lezione. La giornata della memoria, per quanto mi riguardava, era finita lì.
Ma perché quella domanda? Era l’uscita infelice di un’alunna superficiale, o il sintomo di una insofferenza diffusa? Non era forse il segno di un rigetto, la reazione nervosa ad una serietà imposta, avvertita come una violenza sottile contro la quale non si può protestare senza passare per insensibili? E non c’era forse anche il fastidio verso un argomento trattato fin dalle elementari, diventato ormai uno dei luoghi comuni dei temi d’italiano, delle tesine, dei percorsi degli esami di stato? Perché alla scuola italiana si può rimproverare tutto, ma non certo di trascurare la memoria della persecuzione degli ebrei. Non ricorda a sufficienza le precise responsabilità italiane nella tragedia ebraica, è vero: ma questa è una colpa degli storici e dei politici, prima che degli insegnanti.
Nel mio disagio c’è dell’altro; e qui devo stare attento, perché il tema è delicato e non vorrei essere frainteso.
La memoria è attenzione al passato. E’ un atto di giustizia e di compassione verso chi è stato travolto dalla storia, l’opera nobilissima con la quale raccogliamo responsabilmente la parte più dolente del nostro passato e la mescoliamo alla nostra vita quotidiana, la facciamo diventare momento integrante della nostra riflessione sul senso dell’esistenza. Ma l’attenzione al passato deve essere accompagnata dall’attenzione al presente. La capacità di cogliere il grido di sofferenza che viene dal passato è ancora insufficiente, senza la capacità di cogliere quello stesso grido nel presente. Ai volti delle vittime di ieri dobbiamo saper accostare quelli delle vittime di oggi. Accanto a quella della memoria, ci vorrebbe forse una giornata dell’attenzione. Una giornata durante la quale parlare della guerra in Congo, di quella in Somalia, di quella in Sierra Leone; e, anche, del conflitto israelo-palestinese. Conflitti di cui non avete mai sentito parlare, perché i programmi di storia si fermano il più della volte alla Seconda Guerra Mondiale. Conflitti di cui non avete sentito parlare nemmeno alla televisione, eccezion fatta per il conflitto israelo-palestinese: del quale però capite poco o nulla, se qualcuno non vi spiega le radici e le cause di tanto spargimento di sangue.
I campi di sterminio furono resi possibili dalla distrazione di chi non vide o dall’assuefazione di chi vide e non seppe capire la gravità della cosa. Ma noi siamo ancora distratti: ancora assuefatti. Noi non vediamo i massacri, o li vediamo, e ci sembrano quasi normali. Non ci interessano i tre milioni di morti del Congo, in un conflitto dovuto agli interessi economici delle potenze occidentali. Non ci interessano i curdi, perseguitati dai nostri amici turchi (e se un curdo muore soffocato in un tir, è solo un immigrato clandestino in meno). Non ci interessa Rachel Corrie, pacifista americana ventenne massacrata nel tentativo di impedire la distruzione delle case dei civili palestinesi.
Ecco, insomma, il mio disagio – che è quello di far parte di una scuola distratta, ma di buona memoria. Di una scuola che si commuove per il passato ma non fornisce strumenti per commuoversi e indignarsi e impegnarsi nel presente.